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Caruso e Carosone hanno la stessa etimologia, derivano entrambi dall'appellativo siciliano con il quale si chiamano i ragazzi, i “guagliuni” che imparano un mestiere. Mi sono sempre chiesto perché a Rio hanno intitolato l’aeroporto a uno dei maggiori musicisti brasiliani, Antonio Carlos Jobim, mentre a Napoli è rimasto Capodichino e non l’hanno intitolato a uno di questi due giovanotti. Ecco, mi sembrerebbe doveroso. Del resto sarebbe doveroso anche fare un grande museo della canzone napoletana, avere teatri, librerie, spazi attrezzati dedicati per l’approfondimento, la diffusione, la sperimentazione e per dare la possibilità a tutti di potersi nutrire quotidianamente della bellezza e della ricchezza sia della lingua che della musica originata in questa città.
Nella storia di entrambi quei “guagliuni” c’è tanta America, punto di arrivo per quei napoletani a cui “costava lacreme”, ma anche simbolo di una riconquistata libertà dopo il fascismo. Credo che Carosone, musicando il testo di Nisa, lo dicesse soprattutto a se stesso “tu vuo’ fa’ l’americano’, perché per lui Jazz, swing, blues, rock and roll erano ritmi di libertà. Quella libertà che fa rima con creatività, modernità, ed è alla base di tutta la sua poetica, del suo sguardo, del suo modo di porsi nella costruzione di un personale universo musicale, originale, innovativo, trasgressivo.
Carosone è un artista moderno, ha in sé quell’ironia tipica di una certa avanguardia, Per lui, che si è formato studiando Chopin, Bach, Beethoven, Liszt, la musica popolare di tradizione, per la quale prova amore e rispetto, rimane sullo sfondo della sua ricerca espressiva, è tangenziale al suo modo di comporre e di attraversare i generi musicali. Forse la sua grande originalità sta appunto nella capacità di aver saputo inventare una nuova musica napoletana, come ad esempio hanno fatto Pino Daniele o gli Almamegretta.
“Canta Napoli!” annunciava Gegè Di Giacomo durante i loro concerti. Ma quale Napoli? Quella di “O sole mio” e degli ammori tormentati?. Beh, proprio no, era la "Napoli in farmacia" o la “Napoli petrolifera” di canzoni come “Pigliate 'na pastiglia” o “Caravan Petrol”, locuzioni che sintetizzano tutto lo spirito avanguardistico dell’approccio di Carosone e della sua crew alla canzone napoletana.
Ma il brano di Carosone che amo di più è “Maruzzella”. Una delle sue non molte composizioni che in qualche modo si rifanno alla tradizione e che sono state in grado di rinnovarla. In quegli anni, ’50 e ’60, assistiamo a un vero e proprio boom della “nuova” canzone “classica” napoletana, con brani come “Malafemmena”, “Anema e core”, ma anche la splendida “Nun è peccato” di Peppino di Capri, “Indifferentemente” o “Tu si na cosa grande” di Modugno. Sono canzoni che appartengono decisamente alla categoria “evergreen” e che testimoniano quanto sia ricco questo patrimonio conosciuto e amato in tutto il mondo.
“Maruzzella” però secondo me ha una marcia in più, non solo per le parole che sono di una bellezza sconvolgente, ma per quell’andamento avvolgente, che - anche per colpa di Lina Sastri che ne ha fatto una interpretazione straordinaria, inarrivabile - ti rimane addosso con tutta la sua forza seduttiva.
In questo pezzo mi sembra di rivedere il grande amore che Carosone provava per la sua compagna, a cui l’autore del testo Enzo Bonagura si sarebbe ispirato, e il grande struggimento di un innamoramento non corrisposto, come nella migliore tradizione della canzone napoletana. Ci vedo quello sguardo malinconico, magistralmente riportato sullo schermo da uno strabiliante Edoardo Scarpetta, di un uomo profondamente innamorato, non solo però della persona che ama, ma direi soprattutto della musica.
Questa versione di "Maruzzella" è stata arrangiata da Ermanno Dodaro, l'abbiamo suonata insieme per la prima volta nell'Auditorium del Conservatorio di Napoli.
Qui siamo sempre a Napoli, alla GALLERIA TOLEDO, il 9 febbraio del 2023, con Giovanna Famulari al violoncello, Ermanno Dodaro al Contrabbasso e Massimo Antonietti alla chitarra.
Ripresa video di Maurizio Malabruzzi