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Nella storia intellettuale del buddhismo il simbolismo femminile assume un ruolo sempre più complesso. Già nella fase del buddhismo Mahāyāna e nelle correnti della “Perfezione della Sapienza” o Prajñapāramitā, che si svilupparono tra i secoli II a.C. e il IV d.C. in India, si venne a delineare il culto della grande Sapienza, o della grande Madre, considerata come un'ipostasi della stessa Prajñapāramitā. Secondo alcuni studiosi, in queste tendenze si rifletteva il culto della dea madre, proprio delle antiche società matriarcali delle popolazioni dravidiche dell'India del Sud. Ma è solo nella fase medievale del buddhismo Vajrayāna che si affermò definitivamente una visione metaforica, e poi metafisica, della donna. In questo periodo l'importanza del ruolo religioso delle figure femminili raggiunse il suo acme, in seguito a una diffusa esigenza di antinomia e di rottura con le rigide regole dell'ortodossia brahmanica, come dimostra il fatto che i riti di iniziazione ai tantra superiori prevedevano l'unione sessuale con fanciulle fuori casta. Insieme alla divinizzazione delle figure femminili, nel Vajrayāna si sviluppò una concezione positiva dell'eros, nel suo aspetto fisico di congiungimento carnale, inteso come metodo per sperimentare un diletto particolare, capace di indurre nello yogin una profonda estasi spirituale, rivelatrice della più alta verità.
In questa conversazione analizzeremo alcuni elementi del complesso fenomeno del simbolismo femminile nella letteratura tantrica buddhista indiana e tibetana.
A cura di Giacomella Orofino, Università "L'Orientale" di Napoli