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@antropologo a domicilio
Per la sua tesi di laurea in Sociologia, di cui ero il relatore all’università di Salerno, Edoardo Palescandolo raccolse una ventina di storie di vita di omosessuali. Erano appena iniziati gli anni Ottanta, l’omosessualità era considerata generalmente un “peccato”, un “difetto”, un “vizio” e via dicendo. Tra le biografie raccolte da Palescandolo ho scelto questa di Donato, che all’epoca aveva diciotto anni. Racconta la drammatica solitudine di un ragazzo che si scopre omosessuale e che è immerso in un ambiente che lui teme non possa capirlo e non sia capace di accoglierlo. E dunque vive completamente isolato, silenzioso, impaurito. Più di una volta nel suo racconto Donato dice che per lui amare ed essere amato è la più grande realizzazione. Per esempio: “quella è la tua vera realizzazione essere pensato da qualcuno, essere amato, la sensazione di esistere perché c’è qualcuno che ti pensa, che ti ama. La sensazione di sentirti vivo solo se qualcuno ti ama e se dai amore a qualcuno”. Ovviamente, per lui amare ed essere amato da un uomo. Nello stesso tempo, questa per lui è una “disgrazia”. Infatti a una domanda precisa di Eddy usa proprio questo termini: la sua “diversità” è una disgrazia, e aggiunge: “odio la mia diversità”; per lui non è qualcosa di cui andare fiero, è una specie di prigione in cui è nato. “Una vita gay - conclude - è una vita completamente infelice”.
Ho ascoltato e riascoltato il racconto di Donato, ho riflettuto sulla sua sconsolata conclusione - aveva solo diciott’anni - e ho meditato a lungo sul dolore di questo ragazzo. Cioè in fondo sul fatto che è tremendamente semplice dare dolore a un essere umano come lui, solo per pregiudizio, per superficialità, per quel razzismo nascosto da stupidità, che è sempre pronto a venir fuori.
E poi ho pensato che quarant’anni e passa di Arci Gay e delle altre associazioni e trent’anni di Gay Pride, al di là dell’aspetto di provocazione teatrale che tanto inquieta i benpensanti, forse hanno dato la possibilità agli omosessuali, ma in generale alle persone lgbt+ di non vergognarsi di esistere, di imparare a vivere una vita degna, fornendo loro un sentimento collettivo di orgoglio gay. Palescandolo mi dice che ancora tanto c’è da fare e da cambiare, soprattutto nelle famiglie, sono d’accordo. Ma forse oggi la maggioranza dei ragazzi omosessuali non maledirebbe la propria “diversità”, perché quelle nuove realtà associative ed espressive hanno dato la possibilità di avere un “orgoglio” che a quell’epoca non c’era (da adolescente, Donato pensava di essere “sbagliato”, che solo lui era “fatto così”). Un po’ come il sentimento di orgoglio nero ai tempi di Malcom X e di Martin Luther King. E prima ancora, nel lavoro di Marcus Garvey: “I shall teach the Black Man to see beauty in himself” (insegnerò all’uomo nero a vedere la bellezza in se stesso).
Sono troppo ottimista?
Le Vite Narrate. Uno dei quattro appuntamenti del lunedì dell’antropologo a domicilio.
Le Vite Narrate. Vite che valgono. Tutte: vite fuori del comune e vite di persone comuni. Tutte. Raccontate a voce. La musica di una voce che racconta per un ascolto che fa comunità umana. In questo podcast vi saranno persone comuni e persone non comuni. Il principio è che ogni vita è degna di essere raccontata, e che i racconti delle vite di persone comuni non sono per niente comuni all’ascolto, proprio come quelle di persone non comuni. Ciò che cambia semmai è la forza espressiva della narrazione, la sua efficacia nel colpire chi ascolta. Perché ogni narrazione è un’opera d’arte, a diversi livelli. Le persone comuni hanno vite proprie, diverse, dunque non comuni se le si ascolta “veramente”, poiché ogni vita è una vita da raccontare.