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Nel 1971 mio cugino Pietro Maggiore, bravissimo poeta dialettale bagherese, compose una canzoncina intitolata “Picciuttanza”, cioè “Giovinezza”.
Pietro fu sempre giovane nell’animo; per questo amava stare con i giovani, parlare con loro, ascoltarli. Io, che in quell’anno avevo 17 anni, non mi annoiavo mai stando con lui e avevo sempre qualcosa da imparare standogli accanto.
Questa poesia (che come sempre Pietro aveva unito a una musica di sua composizione) inneggia all’amore disinteressato: i “picciutteddi schetti” (oggi si direbbe “single”), che vogliono “maritarsi”, devono cercare “giovinezza” e non “denari”; infatti i soldi vanno e vengono, come i pensieri, mentre la giovinezza quando passa non torna più:
«O picciutteddi schetti, chi v’aviti a maritari,
circati picciuttanza, nun circati mai dinari;
li sordi vannu e vennu comu fùssiru pinzeri,
la picciuttanza inveci quannu passa nun torna cchiù»
Sembra di cogliere qualche eco di Lorenzo il Magnifico (“Quant’è bella giovinezza, / che si fugge tuttavia! / Chi vuol esser lieto, sia: / di doman non c’è certezza”); ma vi si coglie un eco meno edonistico, un invito all’assennatezza, alle scelte ponderate.
E, a supporto della tesi, subito dopo viene ripetuto due volte un ritornello dallo schema chiastico, in italiano:
«Bella è la vita, la vita è bella,
la vita è bella, bella è».