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Si definisce semplicemente un’anima tormentata, eppure è tante altre cose. Un pianista prima di tutto, e poi un compositore, direttore d’orchestra e filosofo. È impossibile non conoscere Giovanni Allevi, con quella nuvola di ricci sulla testa, ma per ogni riccio non c’è un capriccio, piuttosto un vasto mondo interiore fatto di emozioni, ma anche di fragilità da cui scaturisce al contempo una frenesia che si tramuta in estro musicale. È un fenomeno della musica classica contemporanea, sebbene egli non ami ritenersi tale, perennemente insicuro e in questo totalmente convinto della relazione tra il buio dell’anima e la ricerca della bellezza della luce attraverso la musica. Gli studi musicali affiancati al lavoro di cameriere, inizi difficili segnati già da piccolo dal suo essere nerd e ‘diverso” dagli altri compagni. La musica osteggiata già in famiglia, eppure quella stessa musica che per anni ha celato in un cassetto lo ha portato a costruire un legame indissolubile con il pubblico. Molto spesso criticato come frutto di un’abile operazione commerciale e non di innovazione musicale. Eppure, fra tante ansie e paure, una sensibilità che lo porta a vivere profondamente le inquietudini del tempo moderno, nonostante il successo mondiale è difficile che sia felice indipendentemente dai risultati. Perché l’ansia di superarsi è sempre dietro l’angolo, e da questa frenesia a fare sempre di più e meglio deriva la sua ricerca di isolamento. Ed è in questo isolamento che Allevi ha trovato finalmente il suo equilibrio, un’armonia in cui, come il folletto Puck, intreccia note che trasforma in sogni. Di seguito stralci dell’intervista.