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Maria Valtorta - Quaderni - 13 maggio 1943: Maria Valtorta descrive le sue esperienze mistiche

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I Messaggi della Madonna nel Mondo

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Күн бұрын

Maria Valtorta - Quaderni - 13 maggio 1943: Maria Valtorta descrive le sue esperienze mistiche
Mattina
Poco fa lei è tornato a dirmi di scrivere. La fatica fisica è un nulla di fronte alla fatica morale che devo compiere per alzare i veli oltre i quali è il soprannaturale. Perché? Per diverse ragioni.
La prima si è che mi pare di commettere quasi una profanazione rendendo noti i segreti di Dio in me. E temo sempre che questa, se non profanazione, certo: proclamazione, mi possa produrre un castigo: quello di essere privata delle divine carezze e delle divine parole. Si è sempre un poco egoisti, noi viventi. E non si pensa che quanto Dio ci largisce può dar gioia ad altri e che, essendo cosa di Dio, Padre di tutti, non è lecito a noi esserne avari e privarne i fratelli.
La seconda ragione è che un resto di diffidenza umana, verso di me e verso gli altri, mi fa sempre pensare se quanto io avverto come “soprannaturale” non debba invece esser valutato da me come illusione e dagli altri come una farneticazione. Ho tanto sentito darmi della pazza che penso che… ancora il prossimo mi possa mettere in questa categoria.
La terza ragione è che di questi favori io ho paura. Paura perché ho sempre il terrore che possano essere un inganno… Possibile che io, io nulla, possa meritare questi favori dal mio Re? E paura che mi provochino della superbia. Sento che se me ne insuperbissi, anche per un attimo, cesserebbero subito, non solo, ma io resterei anche senza quel minimo di soprannaturale che è comune a moltissimi. In castigo per la mia superbia. Oh! ne sono sicura che Gesù mi punirebbe così!
E ora che le ho detto le ragioni per cui non amo parlare, le dirò quelle per cui sento che non sono illusa, prendendo delle larve di delirio per verità soprannaturali e parole demoniache per parole divine.
Sono sicura per la soavità e la pace che mi invadono dopo quelle parole e quelle carezze e per la forza che mi investe, obbligandomi ad ascoltarle e a scriverle senza poterne mutare una parola. Alla dolcissima forza con cui sono obbligata ad ascoltarle o a scriverle - e sempre in momenti che esulano da ogni mia volontà di udire quelle cose (la prego credere che io non faccio nulla per mettermi, dirò così: in posizione ricevente) - sento, se è il caso, una più viva forza che mi dice: “Rendi noto questo. Taci a tutti quest’altro”. E con questa soave prepotenza non si transige…
Ma di mio non c’è nulla. Se anche io penso (e me ne affliggo): “Gesù tace. Oh! se si facesse sentire per consolarmi un pochino!”, stia certo che Egli continua a tacere. Solo quando vuole si fa udire; e allora anche se io sono occupata d’altro, qualunque altro che magari mi urge compiere, devo smettere e occuparmi di Lui solo. Come se, secondo il mio stile, preferisco un modo di dire ad un altro e cerco cambiarlo, non posso. Così è detto e così deve restare.
Sempre stamane lei mi diceva di scrivere di sensazioni passate. Le ho detto che non potrei ripetere ora esattamente quelle parole e perciò non le ripeto. Di mio non vi deve essere nulla. Ma le posso fare una piccola enumerazione delle cose che ho avvertito.
Come le ho detto più volte, in molte riprese, io ho sognato Gesù, Maria e i Santi. Però mentre Gesù era sempre “vivo”, la Vergine e i Santi erano come statue o quadri: figurazioni. Solo un fraticello francescano, che certo era santo, ho visto due volte come persona viva. E una mi diceva che di tutti i mali “mi avrebbe ucciso quello che avevo lì” e mi toccava i polmoni. Questo sogno lo feci or sono sette anni, quando ai polmoni non avevo nulla di nulla.
Un’altra volta lo stesso fraticello francescano, che non mi è parso né S. Francesco né S. Antonio, con un volto di luce, mi diceva: “Hai più meritato tu con questa malattia che una suora in convento. Ogni anno dei tuoi vale una vita conventuale”. Questo me lo rispondeva perché io, vedendo la morte in agguato, mi crucciavo di aver fatto così poco… La mia Superiora (morta dal 1925) mi allontanava dalla morte, mi occultava ad essa dicendo: “Campa ancora qualche anno”, onde io dicevo: “Ma cosa faccio io? Nulla! Fossi suora!”, e fu allora che il fraticello mi disse quelle parole.
Come le ho detto, il mio Angelo l’ho visto solo quella volta. Però delle volte sento come un venticello alitarmi sul viso e penso che sia il mio buon angelo che mi ristora nei momenti in cui sono tanto abbattuta da non potere agitare il ventaglio. Nell’estate del 1934 questa sensazione è durata per dei mesi: i mesi di continuo pericolo mortale. Tolto questo, il mio angelo… fa il morto. Lui che mi ha così ben tutelata, poppante e urlante nei solchi infuocati di Terra di Lavoro, che mi ha soccorsa nella sincope del 4 gennaio 1932, non si è mai mostrato o fatto sentire palesemente, fuorché quella volta. Se non è lui che ora ha piantato il giglio e le viole, prendendoli a giardini forniti… ma chi lo sa?
Ho invece visto e parlato (in sogno) a Padre Pio di Pietrelcina....

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