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Canto decimo dell’Inferno: siamo nel sesto cerchio, nella città di Dite, dove sono puniti gli eretici e dove Dante incontra Farinata degli Uberti, il più importante capo ghibellino a Firenze nel XIII secolo. Ma si comincia con un esame dei peccati, e con le domande del poeta al maestro per capire le differenze, la gravità, le pene, la distinzione tra mortali e non…tra peccati scontati nell’Inferno o nel Purgatorio. C’è modo e modo infatti di fare il male. I peccati puniti prima della città di Dite offendono di meno Dio, perché fatti senza volontà di far del male altrui. Farinata degli Uberti si trova in compagnia degli epicurei: ha un atteggiamento apparentemente eroico, come se pure all’inferno avesse l’ardire di ergersi contro Dio, di mantenere una sorda rabbia contro il bene, il vero. Ma Dante lo ammira come uomo, ed è proprio a Farinata che affida la prima delle predizioni sul suo futuro. Eppure è morto tra i morti, perché non credette nella vita ultraterrena, tra quei che “l’anima col corpo morto fanno”. Un’altra anima esce poi con la testa dal sepolcro: è Cavalcante Cavalcanti, padre di Guido, tra gli amici più cari di Dante, che si chiede perché suo figlio non sia lì, con lui. Anch’egli era un grande poeta, avrebbe dovuto avere lo stesso privilegio. Dante spiega dolorosamente che Guido ha sempre rifiutato di avventurarsi nella conoscenza di Dio, esattamente come il padre. Dante usa il verbo “ebbe a disdegno” e Cavalcante capisce allora che il figlio è morto. Ritorna nella tomba sopraffatto dal dolore della notizia, che Dante non ha fatto in tempo a smentire. E’ straziante l’abbrutimento di questi grandi uomini, che non riescono a staccarsi dalle passioni, dal potere, dai legami terreni, e non capiscono nulla del viaggio del pellegrino: solo e per sempre centrati su se stessi, chiusi ad ogni spiraglio di speranza, di pentimento, perché caparbiamente chiusi alla fede, alla misericordia.