Collio, dove 60 anni di Consorzio hanno trasformato i vigneti in giardini e le cantine in cattedrali

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CORMONS - Terra, aria e clima. Oltre naturalmente alla mano dell'uomo. Quello che si chiama comunemente terroir, in un fazzoletto d'Italia al confine con la Slovenia diventa qualcosa di straordinario, unico e irripetibile che è stato capace, nel corso dei secoli, di far diventare il Friuli Venezia Giulia e il Collio in particolare, l'area a cui si pensa per prima se si vuole associare l'idea di grandi bianchi all'Italia.
Non è stato semplice neanche da queste parti superare le diffidenze iniziali dei produttori, convincendoli a mettersi insieme e a dar vita al Consorzio, nel 1964. Oggi di strada ne è stata fatta tanta, ad essere associati sono quasi duecento, la denominazione è celebre ben oltre i confini nazionali e si è assistito anche ad un mutamento del paesaggio. Come ha ricordato a Villa Russiz a Capriva del Friuli (Gorizia), durante un talk moderato da Licia Granello, Michele Formentini, la memoria storica del Consorzio che scrisse di proprio pugno l'atto costitutivo: "Cerano tanti vantaggi, ma anche tanti oneri. Alla fine firmarono in una ventina, il numero minimo per l'istituzione. Era da poco stata approvata la legge del 1963 che disciplinava le denominazioni di origine, quindi avviammo l'iter burocratico per il riconoscimento della doc che arrivò nel 1968".
Una determinazione che ha portato quello del Collio ad essere tra i primi consorzi istituiti in Italia. Ma la storia della viticoltura è molto più antica e affonda le radici nell'epoca romana quando la produzione del vino era già affermata. La viticoltura moderna ha inizio nella seconda metà dell'800 quando si inizia via via a sperimentare dimostrando grande propensione alla ricerca e all'innovazione, a partire dalla sostituzione di alcuni vitigni locali considerati di scarsa qualità con pregiate varietà di uve francesi e tedesche. Prima ancora, a fine 1700, una classificazione del territorio aveva selezionato aree e paesi, sia nell'area italiana che in quella slovena, indicando, sul modello francese, dal primo fino al settimo cru.
"Abbiamo primeggiato nell'evoluzione", ha ricordato ancora Formentini, rimasto in sella per trent'anni, "perché il Consorzio ha subito istituito un laboratorio analisi per aiutare i produttori a fare buon vino e abbiamo incentivato l'imbottigliamento dei vini, questo ha fatto sì che si costruisse un'immagine".
C'è stata poi la mano tesa della Regione: "Nel '68 fu emanata una legge che concedeva il 50% di contributi a fondo perduto a chi impiantava la vite, questa è stata una grande spinta alla viticoltura", ha ripercorso Formentini.
La spinta alla viticoltura, dunque, dal basso ma anche dall'alto, ha prodotto anche mutamenti paesaggistici che ci consegnano il Collio come lo vediamo oggi: circa 1.500 ettari su una sequenze di basse colline tra i 60 e i 270 metri sul livello del mare, in cui la vigna, spesso terrazzata, è ben integrata con i boschi in un contesto di verde bellezza incontaminata.
Ben 19 le tipologie ammesse, ma niente spumanti: "Sul Collio è praticamente impossibile fare bollicine", ha rilevato Bignucolo, "perché serve un vino con bassa gradazione e alta acidità, il contrario di quel che si produce qui".
Ci si consola, si fa per dire, con bianchi di straordinaria longevità per i quali conviene aspettare e chi non lo fa, forse, sbaglia. Non è un caso, d'altra parte, che molte aziende escano sul mercato almeno un anno e mezzo dopo la vendemmia, nonostante le difficoltà a far apprezzare questa politica soprattutto ai ristoratori.
"Un grande vino deve potersi conservare nel tempo, maturare e per certi versi migliorare. Purtroppo però", ha ammesso Bignucolo, "c'è troppa voglia di sorprendere o avere l'asso nella manica. La vocazione dei vini del Collio è dei migliori bianchi d'Italia per equilibrio tra profumi e sapori, questo deriva dal microclima e dalla ponka".
Il caratteristico suolo in cui si alternano marna e arenaria rappresenta infatti la caratteristica più importante e identitaria che conferisce ai vini la caratteristica impronta di mineralità e salinità. Ma c'è chi dice che anche la bora faccia la sua parte: Paolo Della Rovere del Castello di Spessa, racconta ad esempio come lo scorso anno il forte vento che spira da queste parti fu provvidenziale per la qualità delle uve, asciugandole rapidamente dopo alcuni giorni di pioggia incessante che aveva fatto stare i produttori col fiato sospeso.
Sicuramente bianchi, che rappresentano circa l'80-90 per cento della produzione e in cui spiccano i monovarietali, ma il Collio sorprende anche per i vini rossi, a partire dal Merlot che ottiene un'espressione fuori dal comune.
"Per natura siamo un popolo misto, in cui si mescolano molte culture e tradizioni, però la nostra pecca più grande è forse che stentiamo a raccontarci e a svelare i nostri sentimenti. Per questo, abbiamo ancora tanto da raccontare!", chiosa David Buzzinelli, presidente del Consorzio.

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