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Il successo della mostra "i Pittori di Pompei" al Museo archeologico di Bologna a cura di Mario Grimaldi (fino al 19 marzo 2023) è senz'altro dovuto alla presenza di molti affreschi provenienti dalle città vesuviane, di grande qualità, prestati dal Museo archeologico nazionale di Napoli. Ma anche dal filo conduttore della mostra, che in questi casi è talvolta tenue: basta mettere belle opere, spesso note in tutto il mondo, e il gioco è fatto al botteghino. Il presupposto scientifico, e diremmo anche didattico della mostra, è invece solido: cercare di evidenziare l'esistenza di chi, invece, è anonimo fin dall'antichità, ossia gli artefici delle pitture parietali, in ambito privato, nel mondo romano.
Plinio il Vecchio, è presto detto, li liquidava come poco più che abili decoratori. Per lui solo i pittori che dipingevano quadri, quindi tavole, erano degni della gloria, in particolare dove i "pictores" creavano per la committenza pubblica, per il sacro, per sottolineare le virtù civiche della città. Ma per gli autori degli affreschi, pompeiani e non, la gloria non c'era: "abbellivano le pareti soltanto per i signori e i padroni". Insomma, dei meri decoratori. Forse abili artigiani, nulla di più.
La distinzione artigiano-artista non è una categorizzazione che ci possa interessare più di tanto. Ma gli artigiani-artisti pompeiani hanno il diritto di essere indagati, non fosse altro che per il grande influsso che questi a volte abili artefici, o talvolta semplici mestieranti non troppo dotati di tecnica, esercitarono dal Settecento in avanti anche sul gusto che è arrivato fino a noi attraverso la ricerca archeologica e le interpretazioni delle accademie.