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Canto XXXIII dell’Inferno, l’animo si fa più cupo, oppresso dall’abisso e dall’assenza di speranza per il male più imperdonabile. Siamo nell’ ultimo cerchio, subito prima di incontrare Lucifero, nella zona dei traditori. Della patria, parenti, amici, benefattori. Si staglia qui la figura tragica e iconica del conte Ugolino: a fondo c’è proprio il tema della paternità. Che responsabilità porta il fatto di essere padri? Anche di trascinare i tuoi figli incolpevoli, nel bene o nel male. La colpa di Ugolino ricade sui due figli e due nipoti. Abbiamo nella mente per sempre quella loro domanda: “babbo mio, perché non m’aiuti?”. Si può tradire il proprio compito, la speranza con cui abbiamo messo al mondo i figli, quella promessa di bene che Dio assicura al cuore di ciascuno. Il testo di per sé è semplice, è diretto e crudo. Intorno è tutto ghiaccio. La morte vera è nel ghiaccio, dove niente può cambiare, niente può accadere. Infatti il Conte dopo la fine tragica dei suoi cari vive già la sua morte eterna: brancola sopra di loro nel buio, in una cecità che fa impazzire. Vien da riaffermare con forza che siamo veramente e inevitabilmente relazione. Ognuno di noi è un fascio di rapporti, e tutto quel che di positivo costruiamo investe i rapporti, cioè gli altri, così come il male e il tradimento della nostra sete di verità in qualche modo si riversa sugli altri. La verità o la menzogna che serviamo investe il mondo. E responsabilità di un padre è trovare un punto di fuga per cui un figlio, guardandolo, vede la possibilità concreta di seguirlo, fiducioso. Sì! Valeva, vale la pena venire al mondo.